L’Unione Europea, con le sue politiche agricole, ha incentivato costantemente – negli ultimi 25 anni – l’aumento della produzione negli allevamenti. Secondo Greenpeace ogni anno 30 miliardi di euro, circa un quinto del budget europeo complessivo, sono destinati all’allevamento intensivo e ai produttori di mangimi.
 
Un singolo consumatore può fare scelte di acquisto più consapevoli e rispettose dell’ambiente, ma fintanto che il mercato sarà invaso da una quantità di prodotti malsani (es. le carni degli allevamenti intensivi) non ci sono possibilità concrete di invertire la rotta a favore di un cibo più sano e rispettoso del pianeta. Sono le infrastrutture che devono cambiare, per apportare cambiamenti su larga scala che impattino positivamente sulla salute e sull’Ambiente.
 
A differenza dei consumatori, gli amministratori delegati e i politici hanno il potere di dare forma alle infrastrutture e orientare la società in una direzione più sostenibile.
 
Non stiamo sostenendo che le scelte individuali non producano alcun effetto positivo: è chiaro che con le nostre scelte di acquisto contribuiamo in parte a orientare il mercato verso una direzione o un’altra. Ma ciò avviene solo in piccolissima parte. Facciamo un esempio in generale, e consideriamo il settore delle aziende petrolifere che estraggono petrolio in continuazione dal sottosuolo. Un singolo consumatore può tutt’al più optare per un’auto meno inquinante e magari elettrica, che non necessita di petrolio per il carburante, e questo impatterà soltanto in piccolissima misura sul mercato e sull’Ambiente. Ma la Shell, poniamo, può decidere (o essere forzata a decidere dai politici) di investire il suo intero budget nelle fonti rinnovabili anzichè in nuovi gasdotti e piattaforme petrolifere.
 
Allo stesso modo se il governo decidesse di limitare o vietare gli allevamenti intensivi, ridurremmo le emissioni di anidride carbonica come non potremmo mai fare limitandoci a promuovere acquisti di carne da piccoli allevatori o promuovendo diete vegetariane. Senza norme più rigide, evidentemente delineate a livello politico e statale, non siamo cioè in grado di cambiare in modo sostanziale il nostro comportamento collettivo.
 
Per fortuna sembra che sia nata una nuova generazione di attivisti che sembra aver capito l’importanza cruciale di una inversione di rotta che parta da un forte segnale della politica. Mentre quando eravamo bambini noi, 40 anni fa, interiorizzavamo il senso di colpa per il disastro ecologico (la pubblicità attribuisce sempre ai consumatori la colpa del degrado ambientale, infatti dice sempre “compra lampadine a risparmio energetico”, “usa meno acqua per farti la doccia”, e cose di questo genere), i giovani ambientalisti oggi puntano il dito direttamente contro gli amministratori che stanno rovinando il loro futuro. Non si limitano a mangiare vegetariano o riciclare i rifiuti, ma hanno il coraggio di individuare i veri responsabili.
“Come osate?”, ha chiesto Greta Thunberg ai leader mondiali durante il suo appassionato discorso a un vertice delle Nazioni Unite? “La gente soffre, muore, interi ecosistemi sono al collasso. Siamo alle porte di un’estinzione di massa e voi parlate di denaro e di crescita senza limiti. Come osate?”
 
Ora oltre ai giovani ambientalisti della nuova generazione ecologica servono anche gli avvocati, che portino in tribunale i governi lassisti e le aziende inquinanti. Serve creare un movimento di massa che sostenga e che creda con fermezza in questa nuova prospettiva. Possiamo e dobbiamo far sentire la nostra voce di cittadini, nella consapevolezza che un pianeta migliore non comincia da noi stessi, ma da un impegno collettivo.